top of page
  • Lamberto Santuccio

Terre di confine. La frontiera

Uno dei più grandi attraversatori di confini, Riszard Kapuściński, in un libro sull’Unione Sovietica e sul suo crollo ha scritto: “L’avvicinarsi di una frontiera aumenta sempre l’eccitazione, intensifica l’emozione. La gente non è fatta per vivere in situazioni di frontiera, cerca di sfuggire o di liberarsene prima possibile. E tuttavia non fa che imbattercisi, trovarle e sentirle ovunque”. Situazione scomoda, se si prende coscienza della presenza di confini non soltanto sulle cartine geografiche, ma un po’ ovunque. “E i nostri cervelli? Non contengono forse codificata un’infinità di frontiere? Tra l’emisfero sinistro e quello destro, tra lobo frontale e lobo temporale, tra ipofisi e ipotalamo. […] Nei nostri cervelli si svolge un frenetico via vai di frontiera, di pre-frontiera e di oltre-frontiera. Da cui mal di testa, emicranie e confusione di idee, ma anche qualche perla: visioni, allucinazioni, lampi mentali e, ahimé più di rado, di genio”. Nella mia testa, per tutta la sua lettura, queste parole hanno fatto da esergo a ogni singola pagina di Terre di confine. La frontera, il magico libro di Gloria Evangelina Anzaldúa pubblicato dalle Edizioni Black Coffee nella splendida e curata traduzione di Paola Zaccaria.


Tra Messico e Stati Uniti d’America

Il punto di partenza è il confine, oramai divenuto sanguinolento e celebre tanto quanto quello mediterraneo, fra Messico e Stati Uniti, una separazione che divide le due nazioni con muri, discordie e soprusi e che viene attraversata – anche in questo caso, vengono subito in mente altri inanellamenti di fili spinati, altre spole in lungo e in largo nel mondo – attraversata, si diceva, da migliaia di persone, nell’insicurezza di ciò che li aspetta dall’altra parte e del possibile divieto di rientro. Come la macchia della cicatrizzazione, che prende la linea lasciata dal bisturi e la trasforma in un più largo settore di un rosa diverso, osservare questo confine significa riconoscerlo come area, zona; esattamente come quando, sullo schermo che regala GoogleMaps, a zoommarla sempre più fra pollice e indice il tratto che indica una frontiera sbiadisce e lascia il posto a strade nominate, incroci, spazi verdi o centri abitati. È più corretto parlare dunque di terre di confine, e della sua d’origine (il Texas meridionale) Gloria Anzaldúa ne tratteggia rapidamente la storia, tutta la dipendenza del presente dal passato, sondando le peculiari vene aperte di quell’angolo di America Latina, i movimenti di masse umane, finanche il sincretismo religioso del suo popolo quando il cristianesimo bianco si è immesso a forza nelle credenze precolombiane. Un mosaico di quella “tradizione di emigrazione” che ha inciso su intere comunità, inglobata dal cucaracho fermato dalla polizia di frontiera e trovato senza documenti o dalla donna silente assunta in nero dalla famiglia anglo per pulire casa.


Esistenze di frontiera

Dura poche pagine questa riflessione, Gloria Anzaldúa ha ben altre profondità da illuminare. Un accenno, d’altronde, è già presente nel primo capoverso della sua prefazione, quando l’autrice stessa definisce terra di confine “dovunque lo spazio fra due individui si riduca a causa dell’intimità”. Il potere mistico del testo, infatti, risiede in un’interiorizzazione completa della condizione frontaliera, condivisa da chiunque sguazzi nell’ambiguità e abbia domicilio accanto al perenne rischio di morte, ovvero “los atravesados: gli strabici, i perversi, i queer, i seccatori, i bastardi, i mulatti, i mezzosangue”. Per riconoscere questi individui pare applicabile una regola di cui Anzaldúa ha fatto personale esperienza fin dalla più tenera infanzia: sono tali le vittime della visione machista, occidentale, razionale, eterosessuale e cattolica che governa il globo, muovendone le fila in pieno potere. La condivisione di questa coesistenza con l’oppressione crea una comunanza che è insieme dono e ferita, una partecipazione senza età né sesso né provenienza che fa di questi alieni degli individui complementari; “Il mestizo e il queer” scrive “una miscela a riprova che tutto il sangue si è indistricabilmente mescolato, e che siamo generati da anime simili”, declinazione fra le tante di un animismo whitmaniano.


Ribellione e futuro

Questa peculiare identità smuove nell’animo dell’autrice due differenti reazioni in lampante contrapposizione, che si giustappongono in quello che risulta essere un iter mistico e salvifico. La prima tappa è la ribellione. Gloria Anzaldúa si autodefinisce ribelle fin dai mesi del gattonamento (“me entra una rabia quando alguien […] me dice haz esto, haz esto sin considerar mis deseos”), e lo è su entrambi i fronti: rabbiosa coi bianchi conquistatori, ringhiosa con la comunità di origine dalla quale decide di allontanarsi. Donna e lesbica, subisce la forca patriarcale e l’omofobia volgare in entrambi i contesti, da entrambi viene tacciata di follia e stramberia, non trova pace né nelle aule a stelle e strisce né nei campi latini. Ma subito dopo, e non senza un intimo lavorio, subentra una nuova consapevolezza, quella di appartenere al futuro. Come aveva già prefigurato il filosofo José Vasconcelos, Gloria Anzaldúa vede nel meticcio l’esponente della futura razza cosmica, quella che si imporrà dai margini verso il centro quando i detentori del potere dominante soccomberanno all’unione e al mescolamento cui siamo tutti destinati. E quello del meticcio è un ruolo: a lui spetterà, insieme al ritorno alle proprie terre, il compito di mostrare la grazia della sua condizione, spiegandola e brandendola come vessillo.


Le lingue, le immagini

La messa in atto di questo secondo movimento viene spiegata anche attraverso la lingua. Gloria Anzaldúa si situa infatti all’incrocio di almeno mezza dozzina di lingue, incluse l’inglese, lo spagnolo e le varianti a differenti densità e percentuali che l’incrocio delle prime due ha causato. Ognuna di queste è fonte di disagio ed emarginazione, ognuna mette in ballo una semi appartenenza o un’alterità dalla quale istintivamente si tenta di fuggire. Nel suo progetto di sintesi, così, l’autrice decide di utilizzarle in contemporanea, alternandole. Di conseguenza anche la struttura rifiuta qualsiasi inquadramento e sguazza in piena e assoluta libertà nell’ambiguità; si alternano senza sosta prosa e poesia, filosofia e narrazione, parole proprie e parole altrui, come a scrivere “con la mano mancina” rincorrendo le immagini che spuntano a mo’ di piume e serpenti nell’anima dell’autrice. “Per sopravvivere alle Terre di confine / devi vivere sin fronteras / essere un crocevia”, e nella composizione questo imperativo diventa intreccio di fisicità e linguaggio, plurivocità dei tasselli del mosaico e, per noi lettori, si trasforma in un percorso estremamente profondo, enormemente mistico, che ci libera con la sua potenza da catene cui siamo chiamati a sbarazzarci. – Lamberto Santuccio

bottom of page